Quanto «costa»
allo Stato il finanziamento della Chiesa cattolica
Fin dalla sua costituzione lo Stato
italiano ha contribuito al sostentamento del clero cattolico «in cura d’anime»
con un finanziamento pubblico, che si configurava come risarcimento per la
perdita dei molti beni ecclesiastici da esso confiscati con le leggi
cosiddette eversive. Lo Stato si faceva carico, in pratica, della
volontà dei «fedeli», che con i loro lasciti avevano costituito il patrimonio
delle chiese, sostituendo le rendite, che ne sarebbero derivate, con il suo
contributo diretto al mantenimento dei parroci. Chiamato congrua perché
integrava le offerte dei fedeli per renderle adeguate alle necessità delle
parrocchie, tale contributo era progressivamente rivalutato senza più un rapporto
reale con le rendite perdute.
La situazione non cambiò molto con i
Patti Lateranensi del 1929 che, mentre con la Convenzione finanziaria risolsero
definitivamente il contenzioso economico tra l’Italia e la Santa Sede, con il
Concordato mantenevano il pagamento della congrua ai parroci in cura d’anime,
non quindi a tutti sacerdoti. Convenzionalmente considerata ancora come
restituzione dei beni ecclesiastici continuò ad essere rivalutata negli anni.
Il sistema è, invece, radicalmente
mutato con l’Accordo del 1984 di revisione del Concordato, voluto da Bettino
Craxi, e con la legge 222/85 di applicazione dell’intesa finanziaria in esso
contenuta che configura un sistema di finanziamento pubblico affidato alla
gestione della Conferenza episcopale italiana, Cei.
Non si tratta, infatti, di
autofinanziamento, come si tentò di far credere in un primo momento, ma di
autentico finanziamento diretto da parte dello Stato che copre non solo le
spese del sostentamento dei parroci, come ai tempi della congrua, ma l’intera
attività della Chiesa cattolica.
Per di più su tale modello si sono
definite le norme di finanziamento delle altre confessioni religiose che hanno
stipulato Intese con lo Stato italiano. Esse, eccetto l’Unione delle Comunità
ebraiche, dichiarano, però, di non usare le somme ricevute dallo Stato per il
mantenimento delle loro strutture, ma solo per attività assistenziali e
culturali in Italia all’estero.
Otto per mille e deduzione fiscale
La suddetta legge 222/85 configura
due forme di finanziamento.
La prima prevede la sottrazione dell’otto per mille del bilancio dello
Stato alla giurisdizione del Parlamento per affidarne la destinazione alle
scelte dei contribuenti, che quindi nulla pagano in più delle imposte dovute,
la seconda prevede che i contribuenti possano dedurre dal loro imponibile
fiscale un esborso diretto a favore di una confessione religiosa. Anche questo
grava, ugualmente, sul bilancio dello stato sotto forma di «lucro cessante».
In conformità a questa normativa ogni
anno una percentuale pari all’otto per
mille del gettito complessivo dell’Irpef (non delle imposte
di ciascuno), va alla Chiesa cattolica sulla base delle scelte dei
contribuenti. Tale percentuale, in costante aumento per la diminuzione
dell’evasione e per l’aumento dell’inflazione, è accresciuta dalla successiva
ripartizione dell’ammontare annuo dell’otto per mille su cui non si sono
esercitate scelte e che è ridistribuito, in base a quella percentuale, tra gli
enti (Chiesa cattolica, Governo, e altre confessioni) che la legge prevede come
destinatari dell’otto per mille. Nel corso degli ultimi anni solo il 45% degli aventi diritto hanno in
media effettuato la scelta. Di questi circa il 75% ha destinato l’otto per
mille alla Chiesa cattolica, a cui viene attribuito, grazie alla norma
suddetta, la stessa percentuale della quota di quanti non hanno scelto.
Nei primi quattro anni (1989-1993),
dopo l’entrata in vigore della nuova normativa, non essendo possibile calcolare
l’entità delle scelte sono stati erogati ogni anno 406 miliardi di acconto,
pari all’ammontare annuo della somma delle congrue alla firma dell’accordo, poi
si sono avviati i versamenti regolari delle quote di pertinenza attraverso un
complesso sistema di acconti e conguagli.
Per l’anno 1999 il finanziamento è
stato pari a 1461 miliardi,
1.043 in acconto e 418 di conguaglio. Per il 2000 sono previsti 1.550 miliardi, 1.100 d’acconto e
450 di conguagli.
Dal 1989 sono stati erogati in
tutto 9.408 miliardi,
invece dei 4.060 se fosse restato in vigore il vecchio sistema, nel 2000
saranno 10.958 con la
media annua di 1.000 miliardi.
Una seconda forma di finanziamento è
costituita dal diritto, riconosciuto ai contribuenti, alla deduzione fiscale per le somme,
fino a due milioni, erogate a favore della Chiesa cattolica o delle altre
confessioni. Ne derivano contributi che nel corso degli anni, per la prima, si
sono aggirati tra i quaranta e
i quarantasei miliardi.
Dal confronto tra il gettito delle due forme di finanziamento si può dedurre
che quando si tratta di un esborso diretto i contribuenti sono meno generosi,
non hanno mai superato il numero di 180.000 sui venti e più milioni di
contribuenti.
Nella dichiarazione dei redditi del
1999 sono stati sottoscritti 42 miliardi.
È difficile calcolare il lucro cessante per lo Stato, ma si può ipotizzare che
si aggiri intorno ai 15 miliardi l’anno.
Finanziamento indiretto
Al finanziamento diretto alla Cei, si
aggiungono altre forme di finanziamento che, seppure indirette, costituiscono
pur sempre un onere per le pubbliche finanze in primo luogo gli stipendi dei ministri di culto (insegnanti
di religione cattolica nelle scuole e cappellani nelle caserme, nelle carceri e
negli ospedali) impegnati per motivi pastorali in strutture pubbliche.
Gli insegnanti di religione cattolica
nelle scuole pubbliche costano circa mille miliardi l’anno. Nell’anno in corso
sono a carico del bilancio della Pubblica Istruzione precisamente 976 miliardi per circa 20.000 insegnanti: 1415 nelle materne, a coprire
33.969 ore, 7.996 nelle
elementari, a coprire 175.912 ore, e10.486 insegnanti
nelle medie inferiori e superiori.
Essi, oltre a rappresentare
un’ingombrante presenza confessionale nella scuola pubblica, costituiscono
anche una riserva di operatori pastorali a disposizione delle diocesi. La
pressoché piena discrezionalità delle curie diocesane nelle nomine e nelle
conferme in servizio, mentre offre facili occasioni di favoritismi e di
clientelismo, costituisce un forte strumento di pressione.
Gli stipendi dei cappellani militari, che recentemente sono stati estesi
alla Polizia di Stato pur demilitarizzata, non raggiungono una cifra così elevata.
Difficile è il calcolo del loro ammontare perché nei bilanci dei ministeri
della Difesa e dell’Interno sono inseriti tra le voci concernenti le strutture
finalizzate al benessere dei militari. Lo stesso si può dire per i cappellani
delle carceri e degli ospedali.
È anche difficile, se non impossibile, valutare le somme che lo Stato non
incassa per gli usi illegittimi delle
forme di esenzione fiscale garantite alle attività e alle strutture
destinate al culto. Queste, equiparate con la legge 121/85 alle attività culturali e
assistenziali, godono di un particolare regime fiscale, esenzione dall’IVA e
dall’imposta sui terreni. Va aggiunto il regime speciale di esenzione
dall’Invim degli atti di compra-vendita di immobili di proprietà ecclesiastica. È innegabile che in questo regime
sono facili le occasioni, che diventano tentazioni, di usare le finalità di
culto come copertura di attività lucrative, pur se a maggior gloria di Dio. È
facile che questo accada trattandosi di 16.500 istituti religiosi, 27.000
parrocchie e 16.000 enti di varia natura. Meno facile che siano indagati o
perseguiti se si pensa alle difficoltà di far luce sulle attività finanziarie
del cardinale Giordano, pur inquisito per fatti accertati di rilevanza penale,
e se si ricorda l’omertà che ha coperto le vicende che hanno accompagnato la
truffa dello Ior.
Possiamo aggiungere all’elenco la
parte dei finanziamenti alle
scuole private confessionali. Sono da respingere i
tentativi di chiamarle «libere», perché in verità esse sono ideologicamente
«orientate», o di assimilarle a quelle degli enti locali, non governative ma
pur sempre pubbliche, perché la loro gestione è totalmente privata. Tali
finanziamenti sono stati erogati fin qui in deroga alle leggi, mentre d’ora in
avanti saranno legittimati, seppure in forma ambigua, dalla legge sulla parità
scolastica approvata recentemente dal Parlamento. Si tratta della parte
assolutamente maggioritaria dei 550 miliardi in essa stanziati per le scuole
private dell’infanzia e per le scuole elementari. Per la media restano ancora
fuori legge 10 miliardi pronti a moltiplicarsi legittimamente non appena le
scuole confessionali cominceranno a chiedere e ad ottenere di diventare
paritarie, cioè abilitate a svolgere «un servizio pubblico», con buona pace
dell’articolo 33 della Costituzione.
Meno rilevanti, pur se
significativi, i contributi statali alle Università confessionali cattoliche
nel quadro di quelli attribuiti alle private.
A questo stesso capitolo vanno
iscritti i contributi che le leggi regionali hanno fin qui concesso, e che si
apprestano a concedere, agli alunni delle scuole private sotto forma di
sostegno del diritto allo studio, in verità in applicazione del principio di
sussidiarietà. Preferiscono erogare risorse a scuole confessionali, specie alle
scuole per l’infanzia, piuttosto che incrementare l’istituzione di scuole
pubbliche. Il Friuli, l’Emilia Romagna e la Lombardia sono all’avanguardia, ma,
in diversa forma, anche le altre sono avviate ad imitarle.
Analogamente possono essere
considerati costi le sovvenzioni
erogate alle organizzazioni confessionali all’interno dei contributi che lo
Stato sociale, Governo ed Enti locali - tanto vituperato se eroga
pensioni o sostegno alla disoccupazione - distribuisce per promuovere cultura e
qualità della vita. Dall’uso degli obiettori di coscienza alle convenzioni, un
incontrollato flusso di risorse si trasforma in finanziamento pubblico di
attività private con buona pace dei principi liberisti e del carattere
«volontario» di molte delle organizzazioni assistenziali. A quelle
confessionali cattoliche tocca una grossa fetta della torta. Esse sono la punta
di diamante del rivendicazionismo che anima l’intero settore associativo.
Non per questo sono meno benemerite
perché finanziate. Il loro impegno interviene in settori che lo Stato non può
raggiungere o costituisce una supplenza in quelli in cui gli interventi pubblici,
spesso malgestiti, sono poco efficienti. Si può dire, quindi, che tale esborso
di pubbliche risorse non è del tutto a fondo perduto. Non si può neppure negare
che i cappellani svolgano un utile servizio nelle carceri e negli ospedali, un
po’ meno nelle caserme. Perfino 132 miliardi dello stesso otto per mille
attribuito alla Chiesa cattolica quest’anno sono destinati ad opere
assistenziali in Italia.
Anche dell’eccezionale finanziamento erogato dallo Stato in
occasione del giubileo pari a 3.500 miliardi una parte è stata
utilizzata per opere pubbliche d’interesse generale, pur se la maggior parte è
stata destinata al rifacimento/ammodernamento di strutture ecclesiastiche. Ad
essi si devono aggiungere i costi a carico dei bilanci statale o locali,
relativi al servizio d’ordine, ai trasporti, al servizio pubblico
radiotelevisivo, per consentire lo svolgimento e la spettacolarizzazione delle
manifestazioni liturgiche e delle apparizioni papali. Solo alla fine dell’anno
santo si potrà dire se hanno costituito un investimento redditizio o un
gratuito contributo a sostegno del primato papale nella Chiesa cattolica.
Costi «politici»
Questo articolato e complesso
sistema di finanziamento non è paragonabile con nessuno dei sistemi in vigore
nei paesi europei siano i paesi scandinavi, i länder luterani tedeschi o
l’Inghilterra, dove la chiesa è di Stato, siano i paesi cattolici come la
Spagna, il Portogallo e il Belgio dove pure sono previste forme di
finanziamento diretto alla Chiesa cattolica. In nessuno di questi ultimi,
eccetto il Lussemburgo, si raggiungono forme così capillari di integrazione,
con gravi conseguenze sul piano istituzionale, e livelli così elevati di
deresponsabilizzazione dei fedeli nei confronti del mantenimento della loro
Chiesa.
Si può, infatti, rilevare che, ai
costi economici del finanziamento dell’apparato ecclesiastico cattolico, sono
da aggiungere i riflessi negativi che esso ha sul piano istituzionale e
politico.
In primo luogo c’è da rilevare che
lo stesso meccanismo dell’otto per mille inquina il sistema istituzionale
esautorando il Parlamento dalla gestione di una parte solo percentualmente
determinata delle risorse ricavate dalle imposte, che invece devono essere
destinate in conformità a precise norme legislative, affidandone la
destinazione a singoli cittadini, per di più solo se contribuenti e
dichiaranti. È leso con ciò un principio fondamentale dello stato democratico.
Per di più l’attribuzione alla
Presidenza del Consiglio dei ministri della gestione della quota spettante allo
Stato crea ogni anno un fondo di circa 150 miliardi di cui essa può disporre a
discrezione. Il Capo del governo deve, infatti, solo indicare i criteri
d’impiego in tempo utile perché il Parlamento possa esprimere il suo parere,
obbligatorio non vincolante. Per di più non è svolta nessuna azione
pubblicitaria per sollecitare i contribuenti, opportunamente informati, ad
orientare le loro scelte verso lo Stato. Molti preferiscono astenersi nella
scelta anche perché ignorano le norme, ribadite e precisate nel recente DPR
76/98, che vincolano il governo a destinare queste risorse, gestite fuori del
bilancio ordinario, a precisi settori di impiego: la fame nel mondo, le
calamità interne, l’assistenza ai rifugiati, la conservazione dei beni
culturali.
In verità molti altri sono
scoraggiati per l’uso distorto e discrezionale che ne hanno fatto i Presidenti
del Consiglio. In generale sono stati dispersi in mille rivoli molti dei quali
sono tornati a confluire verso strutture ecclesiastiche o organizzazioni
confessionali. Talvolta le loro finalità sono state stravolte: Andreotti nel
1991 ha attinto al fondo per fronteggiare l’emergenza dell’immigrazione
albanese di massa, e D’Alema otto anni dopo per finanziare la missione
arcobaleno e la guerra «umanitaria» in Jugoslavia
Non meno negative sono le
conseguenze che il finanziamento diretto dello Stato comporta nei rapporti
interni alla Chiesa cattolica intesa come Comunità dei fedeli.
La Cei fissa annualmente l’ammontare
lo stipendio mensile per tutti i sacerdoti, circa quarantamila, e lo eroga per
intero a quelli che non hanno altre fonti di sostentamento. A quelli, che per
la loro attività in strutture ecclesiali, o extraecclesiali percepiscono
emolumenti, viene concessa una integrazione per raggiungere la quota fissata.
Nessuna integrazione è dovuta a quelli che la raggiungono con il loro lavoro.
Nel 1999 solo 103 sono stati a pieno carico, 36.509 hanno ricevuto
un’integrazione, 3.200 sono stati autosufficienti.
In tal modo per tutti i sacerdoti
cattolici, anche per i parroci, si conferma il ruolo di funzionari alle
dipendenze della Cei dalla quale ricevono regolare stipendio: il suo Istituto
Centrale Sostentamento del Clero paga i loro sostituti d’imposta. Con
l’abolizione della congrua è venuta meno la pur limitata autonomia formale
goduta dai parroci che, ricevendola direttamente dallo Stato, potevano esserne
privati solo se formalmente destituiti dall’autorità ecclesiastica attraverso
una procedura molto garantista.
Si può quindi affermare che la gestione
dell’apparato ecclesiastico italiano si avvia ad diventare pienamente
aziendalistica.
Questa concentrazione nelle mani della Cei
dei poteri di gestione del finanziamento non aumenta solo il controllo sul
clero, ma fa della sua Presidenza, del suo Presidente in particolare, un
soggetto economico forte all’interno della comunità ecclesiale capace di
condizionare anche le attività e gli orientamenti di gruppi e singoli per la
discrezionalità di cui gode nell’elargizione di contributi. Si deve, infatti,
tenere conto che solo 1/3 del finanziamento ricevuto come percentuale, in
aggiunta alle scarse risorse ricavate dall’elargizione diretta, è impegnato per
il sostentamento del clero. Restano circa mille miliardi da destinare a
sostenere la pastorale nelle diocesi, ma anche le attività sociali, culturali e
di comunicazione, locali e nazionali, a tutto vantaggio di una gestione
autoritaria della comunità ecclesiale. La gerarchia cattolica, affrancata dalla
necessità di essere sostenuta economicamente dai fedeli, si costituisce come un
soggetto autoreferenziale e antidemocratico sulla scena politica italiana
capace di egemonia nella società, anche per l’acquiescenza nei suoi confronti
delle pubbliche autorità e di gran parte della classe dirigente.